2.9.05

Giggino Pesciafore: nemesi, metessi e parusia


Un giorno erano le 2 e ½ di un pomeriggio di un anno indefinito.
O era un giorno indefinito di un anno alle 2 e ½.
O erano le 2 e ½ e’ chivammuort.

Non fate troppe domande che sennò già ci cachiamo il cazzo e non vi contiamo più niente.

Era un giorno che erano già stati creati il cielo e la terra e Dio se n’era già andato in vacanza da un pò.
Per le vie del borghetto, un criaturo si aggirava ramingo con in mano una sciuscella ed un’aria furbetta. Nessuno aveva mai visto quel criaturo. Nessuno. Mai. Aveva. Visto. Quel criaturo. Fino ad allora.Ecajì ?!?

Il postino ubriaco giurò di averlo notato cacare il cazzo a un cane, e che non era uno dei suoi miatanti figli.
Il marisciallo dei carabbinieri lo vide passare 3 volte, del che redasse relativo verbale in triplice copia.
Il preute e il professore lo videro che si arrubbava la sciuscella dalla cascetta del verdummaro, che però non lo vide, sennò ci faceva il culo come la purpetta.
Il sindaco non c’era. Naturalmente. Capisciammè!
Dì lì a pochi passi il criaturo buttò a terra la sciuscella mazzecata, come i peggio zincari, e si dileguò nello svaporio estivo di quel che fu il pantano delle ufere di Lorenzo il Diavolo.

Per nove mesi, nove, mesi, la sciuscella non fu rimossa e germinò. I semi si diramarono in centinaia di oblunghe e curve radici. Dalla bruna scorza marrone promanò la placenta giallastra che presto si riempì dell’acqua delle ufere e la sera, sul far del tramonto, si potevano intravedere quelle che erano le mani, i piedi e il becco del tenero esserino immerso nel liquido sbrillucicante.

Non fu possibile predeterminarne il sesso, fatto stà che c’era un pesce appeso alla pianta. Quindi forse era maschio. Forse. Sicuro però era Giggino allo stato becco.

Giggino, nacque in un mesto giorno di une tenue maggio, quando già il camio di uno scinziato pazzo si stava carriando la pianta che si era comprato, abusivamente, da mano al verdummaro.

Appena Giggino fu con la capa fuori dalla pianta, il verdummaro vista la malaparata, zompò addosso allo scinziato pazzo e, con una cazzimma esagerata, gli chiavò una cazzo di coltellata dietro i rini.

Lo scinziato pazzo, non appena percepì il lancinante dolore della lama che gli squarciave le carni, con gli occhi al cielo gridò:

- Mannaggiaggesucristo!

Di lì a pochi secondi, spirò. Il prete impallidì, e i carabinieri dissero:

- E’ muorto.

E compilarono i dovuti atti. In triplice copia. Esattamente.

Il verdummaro si arrubbò il camio, la valiggetta coi soldi e sei monete d’oro appese al collo del Giggino nascente, che intraprese così il suo cammino senza speranza. Fottuto prima ancora di campare.

La genesi avvenne, sotto lo sguardo attonito dei carabbinieri che verbalizzarono il tutto in triplice copia. Naturalmente. Non facciamo il fatto del sindaco che non ci stà mai.

Ma Giggino era un supereroe dotato di poetri straordinari. Gaio. Bello come il sole. Capace di trasformarsi, all’occorenza, in Giggino Pesciafore. Un temibile beniamino, non il tabaccaro, col vestito di pelliccia blu, una cuppulella e una cresta arancione di plastica con il becco, erroneamente, posizionato tra gli occhi. ‘Ncul o’ cazz!

Sfrecciava per le strade di Castel Paturnio a bordo della sua fiammante ferrari a pedali creando lo scompiglio tra le morre di criaturi che giocavano a pallone e a settesichiatta fottendosi a vicenda con una cazzimma mai vista. Nessuno riusciva a fermarlo, nemmeno la famiglia dei vigili con l’autovelox in affitto.

I bambini di Castel Paturnio erano tutti dei figli di bucchino. Tranne uno. Leopoldo. Un guaglione di barbiere a tiempo perzo e per senza niente.

Giggino, per esercitarsi all’uso dei poteri, sfessava Emiliano ogni giorno che presto divenne il suo miglior amico. Nu grand amico!

Come Batman e Robin, Giggino ed Leopoldo sfidavano le forze occulte cercando di supplire all’assenza del sindaco. Che non c’era. Naturalmente.

Il preute comprava la Gazzetta di Castel Paturnio tutti le matine.

Mò basta, che già ci siamo cacati il cazzo. La seconda parte la scriviamo quando diciamo noi.
O meglio. Quando giggino ci dirà una poesia.