23.6.06

Bed Religion


La religione era già prima che tutti i profeti di tutte le culture smettessero di scrivere libri e letterine ai proseliti.
Prima che ciascuno avesse consapevolezza dell'essere.
La religione era l'uomo e risiedeva in esso, nutrendosi del sangue del suo sangue, divorando le sue paure ed affogando la sua inconsapevolezza.

La religione è la massa.
E la massa è resistenza che un corpo oppone alla sua stessa variazione di moto.

Una massa persevererà pertanto nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme fin quando non intereverranno forze esterne.

La forza di un estraneo alla massa non è paragonabile alla perseveranza della massa stessa.
Mosche che davanti una locomotiva spingono in senso opposto sono trascurabili, ma soprattutto eliminabili con insetticida o ricorrendo all'accostamento di letame fresco cacato. (Il "letame della massa" è tipicamente quanto và sotto i nomi di letteratura, cinema, scienza. In una parola è considerato dalla massa "letame" tutto quanto è poco interessante o non scrutabile nel giro di 6 parole e 3 immagini. È letame l'essenza stessa che determina l'evoluzione progressista dell'uomo.)

Essere estraneo alla massa non ha un senso fisico intelligente.
Ma è sufficientemente appagante per creare intorno al suo snocciolarsi un'ulteriore religione.
Quella degli estranei alla massa.

La spirale rincorre se stessa.
Le donne rincorrono la spirale.
Gli uomini, basta che chiavano.

(dedicato a Marco Buffardi de "ilcavatappi.splinder.com")

intelligenzia

Compero ergo sum.

22.6.06

Dio

La parola Dio è un sottoinsieme proprio della parola Odio.

18.6.06

Potrei...


Potrei finire di studiare e poi trovarmi una fatica, dopo la laurea.
Magari il doppio lavoro per accumulare capitale più in fretta ed alzarmi una casa e una villa a mare.
Potrei accattarmi una macchina.
Da grande potrei andare alle feste e spararmi le pose col duemilaturbo.
Potrei vedermi il mondo e viaggiare.
Potrei girarmi i vicoli e le campagne più nascoste.
Potrei andarmene con milioni di femmine.
Conoscere mari di ubraconi in mezzo a fiumi di alcool.
Potrei prendermi una laurea in filosofia e scrivere milioni di libri.
Potrei candidarmi per le politiche, le regionali, le amministrative o almeno come amministratore di condominio.
Potrei scassare il cazzo a un zacco di gente o farmi pagari per stare zitto e firmare i progetti.
Potrei comprarmi un pallone aerostatico.
Potrei comprarmi SKY per vedermi i film o i cartoni animati. O i film spuorchi.
Potrei comprarmi le paste tutte le domenice e farmi sempre le mmarenne col pane caldo, la mortadella e il provolone piccante e mangiarle di nascosto al fresco del caldo dell'estate; sussurrando ad ogni morso la parola "Echivemmuort!".
Potrei andarmene per sempre o poi tornare ogni tanto a Pasqua e Natale. O alla festa del paese.
Potrei dormire o magnare come il grizzli.
Potrei fare il concorso al ministero o scrivermi nei carabinieri.
Potrei aprirmi pure io un ristorante per le prime comunioni o una pizzeria all'estero. Una gelateria a Bali.
Potrei fare l'operaio per spirito rivoluzionario o andare in giro a chiedere alla gente se si chiaverebbe mai un puorco, e poi pubblicare un sondaggio.
Potrei scrivere un libro o un saggio. O un foglio A4. O una mail. O pure un sms.
Potrei...
Potrei... si potrei...
Ma già me sò cacat u' cazz.

15.6.06

Non c'esiste


Non c'esiste più la mezza stagione,
Nè l'autunno né . La primavera forse.
Non c'esiste più la cinquecento che te l'aggiustavi da solo.
Non c'esistono più i guagliunazzi sulle grazielle in giro per le strade del mondo.
Non c'esiste più il bar che non pensa al restailing.
Non c'esistono più i treni col finestrino che lo abbassavi e cercavi di guardare più avanti al treno, e sputando colpire quello affacciato dietro.
Non c'esiste più la pianta di ciliege dove m'arrampicavo a rubarle e mangiarle urlando il nome del proprietario fino a quando questo non s'affacciava col fucile.
Non c'esiste più il pescheto dove rubavamo le pesce col motorino 50 in moto sul cavalletto per scappare più veloci dei cani.
Non c'esistono più i pomeriggi senza fare niente.
Non c'esiste più manco uno che ti telefona per fare qualcosa di folle.
Non c'esiste più Boris, e la fidanzata s'initta milligrammi di non-sense endovena.
Non c'esiste più la pace.
Non c'esistono più l'amore e l'amicizia.
Non c'esistono più le giornate di sesso che ti coloravano il pesce di viola e tu tenevi paura che fosse successo qualcosa di irreparabile al tuo orgoglio.
Non c'esiste la femmina che si stà zitta se gli dici "tu dammi quel che vuoi, io quel che posso".
Non c'esiste al linearità.
Nell'universo del non lineare non c'esiste nenache Dio, perché Dio è la soluzione banale e lineare al sistema di domande "cosa siamo? Che famo? 'ndò annamo?".
Nell'universo non c'esisti tu e non c'esisto io.
Non c'esiste niente.
La realtà è solo un ipotesi.
Noi stessi ipotesi che avanzano ipotesi che in quanto tali si materializzano altrove ipotizzando ulteriori ipotesi in un sistema universale non limitato.
Esiste un limite?
No. Non c'esiste.

7.6.06

Luna carogna


Ho scacciato con un calcio il gatto, e chiuso la porta con 3 mandate lasciando fuori il Mondo, dopo avergli dato in pasto ore lente, come miele appollaiato su fondi di barattoli vitrei nei giorni d'autunno.
Ho aperto la veneziana e richiuso il vetro di corsa. D'un botto. Prima che facesse in tempo a rientrare. Per poterla guardare di nascosto dai suoi occhi, questa luna figlia d'una cagna. Queste nuvole figlie di troia.
E ho camminato chilometri nel corridoio di cotto, e guardato per ore lo stesso quadro cogliendo ogni pennellata. Ogni gesto del pittore. E l'ho colto lì. Nel cerchio del pendente. L'ho colto mentre la velocità del suo polso inseguiva il suo impeto. Ha sbagliato anche lui. Un fuoriclasse stipa, progetta e poi colpisce. Un pesce di cannuccia.

Le scarpe le abbandono sotto il tavolo ed apro l'ante dell'armadio collegate alla lampada alogena.
Di nascosto annaffio la piantina del mio amore lontano da occhi indiscreti.
Luna puttana puoi guardare. Mira. Compiangi. Compatisci. Compensa. Comprendi il tuo schiavo.

All'indomani faccio ritorno alla sua casa, con le chiavi che lei toccava ogn sera. Rifaccio i suoi movimenti e chiudo il cancello rosso come lei lo chiudeva, e chiamo le sue bestie coi nomignoli che lei le dava.
Napoleone era morto disteso sul fianco sinistro con la mascella semiaperta rivolta ad est-sudest. Le mosche cavalline verdi nella bocca e formiche sulla pancia.
Le formiche mangiano dolci e cadaveri. Strizzi di vomito e gocce di sperma. Le formiche mangiano e le cicale cantano. Ma le cicale non ingoiano sperma e cadaveri. Né cadaveri di sperma. Né sperma di cadaveri.

Con una vanga scavo un fosso largo tredici palmi ed alto sei. A est-nordest dell'albero di fico secco: quello col ramo che rasenta la terra ingiallita dal sole di giugno, quello colle fronde spoglie dallo sfondo screziato delle sfumature del melograno che stenta a fiorire.
Ficco il forcone nel ventre della bestia e, mentre liquidi strani dai colori organici scorrono, lo trascino per decine di metri adagiandolo nella buca. Le gocce di sudore mi bagnano gli occhiali e m'asciugo la fronte colla canotta.

La prima manciata di terra suona sulla sua pancia come un tamburo. Lo saluto per l'ultima volta come voleva lei. Ancora un tonfo di tom. Terra sulla faccia. Napoleone è seppellito cazzo. Napoleone è seppellito.

Entro nel suo bagno e sfioro le manopole coi suoi gesti, e mi guardo nello specchio come mi guardava lei. Accarezzo l'asciugamano e mi strofino le mani leggermente. Come le strofinava lei. Ascolto la sua musica coi piedi penzoloni dal lettone come faceva lei, guardando il soffitto e canticchiando sottovoce fino a perdere il fiato. Senza più ritrovarlo. Come faceva lei.
Accarezzo le sue lenzuola e il suo spazio. I suoi libri pieni delle parole che lei mi diceva. Tocco tutto, e rubo un pò di cose per nasconderle nei cassetti della mia mente, in un feticistico rituale riecheggiante un amore lontano miglia.

Ogni sospiro è un ricordo, ogni gemito una speranza. Ogni erezione un rammento. Ogni rammento un sussulto. Ogni minuto un'attesa.
Spalanco le finestre ed urlo. E la luna brigante mi rapisce sbattendomi nell'etere interstellare.
Costringendomi anche stanotte a vagare nel cosmo. A bighellonare tra corpi celesti senza volto. A scavare tra galassie senza nome. A guardare le mie dita. A consumare il mio pensiero.
Alla deriva spazio temporale.
Verso uno stato di minima energia.
Di massima entropia.

4.6.06

Tergi verso


E fu proprio quando crollava l'ipotesi che un avambraccio in zona uterina fosse appannaggio esclusivo di certi film spuorchi che vidi il mondo con altri occhi.
E m'affacciai dalla finestra dell'ostello e guardai il mare sotto la scogliera, coi treni sotto che sfilavano imperterriti, come giorni, pieni di gente diretta da qualche parte.
E feci per prendere l'ultimo sorso di birra prima di rispondere al telefono.
Le parole scorrevano insensate a riempire uno spazio saturo di piacere.
E Feci per terminare la conversazione per ritrovarmi, ancora, con la faccia immersa in universi umidi dichiarati insani dalla santa romana chiesa.
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove sui pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t'illuse, che oggi m'illude,
o Ermione.

Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitio che dura
e varia nell'aria secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancora, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immensi
noi siam nello spirito
silvestre,
d'arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.

Ascolta, Ascolta. L'accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall'umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s'allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s'ode su tutta la fronda
crosciare
l'argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell'aria
è muta: ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell'ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.

Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le palpebre gli occhi
son come polle tra l'erbe,
i denti negli alveoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
( e il verde vigor rude
ci allaccia i melleoli
c'intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani

ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m'illuse, che oggi t'illude,
o Ermione.
"La pioggia nel pineto" - D'Annunzio Gabriele
La smetto. Giuro che un giorno la smetto.