17.4.08

17 aprile 2008

Quella sera era un pomeriggio più freddo del solito.
La primavera era venuta qualch giorno e s'era ritirata sotto una coltre infrangibile di spesso freddo.

Alle 12:31 marcammo il cartellino e camminammo a passo svelto fino al parco.
Tirai fuori l'insalata di riso vecchia di 3 giorni.
Lui il suo panino con il prosciuto e il formaggio mezzo marcio.

Luca parlava un italiano intriso di dialetto piacentino. Aveva una bella voce, un po' rauca. Grattava le parole. Grattava la "r" come i tedeschi ed apriva le vocali. Leggeva a colpo d'occhio tutta una videata.

Luca aveva 24 anni e 264 giorni. Quell'anno bisestile allungò di 1 giorno l'attesa della sua parca festa.
Bevemmo qualche raggio di sole, col naso alzato sopra la panchina di pietra.
Fu l'ultimo pranzo.
Al rientro sulla macchina di Luca c'era una lettera.
Appena la tocca arriva, trafelato, il responsabile del personale.
- Guardi io non so perché. Ma potrebbe sempre buttarsi sotto un treno al rientro.
Il ghigno di iena gli si stampò d'improvviso sul viso.
Luca dalle 17 aveva finito di lavorare. Il suo progetto ero finito. Senza fine e, soprattutto, senza motivo. Ma erano le leggi del mercato del lavoro. E Luca era, come tutti, una merce messa lì per un pò.

A differenza di tutto il materiale che ci circondava noi eravamo merce mobile in grado di produrre capitale senza aver per forza bisogno di avere spese fisse.
Tutto dipendeva dal mercato. Se il mercato diceva €10 noi lavoravamo per €10 all'ora.
In quei giorni il mercato diceva 6.8. E noi guadagnavamo €6.8 l'ora. Per 9 ore al giorno. E all'uscita ci perdavamo in 1 ora di traffico. E non avevamo vita personale che non fosse quella della cucina, del cesso e del letto. Non riuscivamo più a fotterci una femmina scassandola.

Da quella sera le pause pranzo divennero solitarie e sempre più insopportabili.
Il gelo della solitudine della consumazione di un pasto è una lastra di ghiaccio perenne.

I miei pranzi divennero presto più veloci. Sempre più veloci. Mangiavo con la foga di chi non ha tempo. Di chi sa ch'è sempre tardi quando sei a lavoro. Ingurgitavo e speravo poi di digerire la rabbia e la tensione che mi consumavano il diaframma.

Sentii, quella sera, con quanta somma semplicità può terrorizzare chi decide di non farti più mangiare.

E d'improvviso l'immagine di mio padre si compose sulla faccia del muro e capii, quella sera, perché era felice la domenica quando eravamo tutt'intorno a lui che, domando la fornce, cuoceva il pollo e sorrideva a noi che rivestivamo di pelle e carne il sangue suo che ci rigirava dappertutto.