15.10.07

La Svizzera dei Clan

Un paesino del casertano ha ospitato il gotha dei latitanti di Cosa Nostra.
Pignataro è un posto idilliaco, in cui ognuno però sta ben attento a fare
gli affari suoi: sennò finisce male

di Roberto Saviano

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PIGNATARO MAGGIORE (Caserta).

È passato di qui. Bernardo Provenzano il capo dei capi di Cosa Nostra, è passato a Pignataro Maggiore piccolo paese di circa 7000 abitanti del casertano. La notizia rimbalza tra le persone, sui banconi dei bar, tra le signore sedute sulle panchine della piazza, ne parlano i pensionati, i
ragazzi seduti sui gradoni della chiesa, un’indiscrezione che si espande silenziosa come un pettegolezzo o come confessione di un’impronunziabile verità. Ricercato da quarant’anni, Binnu u trattore o Binnu u ragioniere, come pare oggi lo chiamino, sarebbe l’ennesimo boss dei corleonesi ad aver prescelto Pignataro Maggiore come luogo sicuro per la latitanza fuori dalla Sicilia, prima di lui vi hanno soggiornato Luciano Liggio negli anni Sessanta, Michele Greco negli anni Ottanta e Totò Riina negli anni Novanta.
Pignataro Maggiore paese dell’agro-caleno sembrerebbe un piccolo e innocuo
centro, identico a tanti che sono possibili incontrare in Campania. La sua storia invece è inquietante.

Conosciuto anche come la «Svizzera dei clan», Pignataro Maggiore è territorio da sempre egemonizzato dal clan Lubrano, imparentato ai potentissimi Nuvoletta di Marano di Napoli, affiliati campani dei corleonesi (Raffaele Lubrano figlio del boss di Pignataro ha sposato Rosa Nuvoletta).
Lubrano e Nuvoletta sono famiglie legate a Cosa Nostra, agiscono quindi con una logica differente dalle famiglie camorriste e sono sottoposte direttamente alla cupola mafiosa. Pignataro Maggiore è l’unico territorio nel casertano gestito direttamente da Cosa Nostra, eppure di questa «colonia» mafiosa nel territorio campano non si parla; pochi, pochissimi, sono coloro che si espongono, scrivono, denunciano. Uno di loro è il giornalista Vincenzo Palmesano. Lo incontro a casa sua, a Pignataro.
Palmesano, intellettuale da sempre impegnato nella lotta alla mafia di Pignataro Maggiore, ex direttore del quotidiano Roma, militante di Alleanza nazionale, ebbe il coraggio al congresso di Fiuggi di chiedere al suo partito di rinnegare l’antisemitismo e di considerarlo una colpa della
destra italiana. Dopo questa presa di posizione, ha subito un duro isolamento politico all’interno di An. Chiedo a Palmesano se la presenza di Provenzano è soltanto una leggenda: «Non è affatto leggenda, è cosa assai probabile che il capo di Cosa Nostra sia passato da queste parti e usi
Pignataro Maggiore come una delle basi della sua latitanza. D’altronde lo stesso hanno fatto i suoi predecessori. Tutti i boss corleonesi hanno abitato questo paese durante la latitanza e non solo».

Risulta difficile immaginare che i potentissimi boss di Cosa Nostra che avevano la possibilità di raggiungere i luoghi più impensabili, abbiano scelto per la latitanza questo minuscolo paesino circondato dalle campagne, tra Capua e Teano. Il rapporto tra Corleone e Pignataro ha però origini remote. Luciano Liggio il patriarca, l’artefice della presa del potere assoluto in Sicilia del clan di Corleone, trascorse lunghi anni della sua latitanza a Pignataro Maggiore. Il suo tempo lo trascorreva in una grande villa in campagna non disdegnando però passeggiate serali nella piazza del paese, si concedeva delle discussioni con le persone del posto ed anche qualche partita a carte. Liggio, ha lasciato nel paesino un ottimo ricordo…
così lo descrive Nunzio, contadino di 77 anni: «Era una persona squisita, gentile. Io ho parlato con lui parecchie volte, di ciclismo e di calcio. Mi offriva da bere. Qui tutti lo conoscevano. Capimmo che era Liggio quando lo arrestarono a Milano e lo vedemmo in televisione. Era spesso triste quando passeggiava per le sue terre, come se gli mancasse qualcosa. Mi è dispiaciuto molto quando è morto». Una sensazione simile l’ha avuta con un altro boss, anche la signora Teresa, 60 anni ex lavandaia che racconta: «Quando vidi Riina alla televisione con le manette, mi sembrava di averlo già visto da qualche parte. Dopo alcuni giorni mi sono ricordata che l’avevo visto proprio qui a Pignataro, avevo lavato e stirato le sue camicie, molte volte. Non sorrideva mai, era cortese ma sempre serio, anzi triste, come se avesse passato un guaio! Si vedeva poco in giro». Riina a Pignataro Maggiore era effettivamente di casa. Partecipò da latitante al matrimonio di Gaetano Lubrano (fratello del boss Vincenzo) e vi giunse in pompa magna assieme ad altri mafiosi, che pare esser stati Pippo Calò, Leoluca Bagarella e proprio Bernardo Provenzano, venuti a omaggiare una delle più fedeli famiglie di Cosa Nostra, i Lubrano appunto. Il pentito Francesco Abbate di Pignataro Maggiore ha raccontato che in quell’occasione fu proprio lui a mettere in salvo da alcune pattuglie dei carabinieri Totò Riina, portandolo tempestivamente in una villa di campagna.

L’ELEGANTE GRECO. Di Michele Greco, detto «il Papa», si hanno in paese ricordi sfocati, Nunzio dice che «soprattutto le donne di Pignataro si ricorderanno di Greco, snello, elegantissimo, sempre con i capelli imbrillantinati, nu’ bell’omm!». Il colono che curava le terre della villa dov’era ospitato Michele Greco organizzò il banchetto per la comunione del figlio a spese del boss. Non si sono mai riscontrate manifestazioni di ribellione contro il potere dei clan, mai un pignatarese si è insospettito per l’accento siciliano di uno strano ospite. Palmesano accenna un sorriso: «Qui la paura è tanta, i mafiosi non ti permettono di chiedere scusa. Se
sgarri sparano e basta. Non è solo la paura però che fa tacere le persone di questo paese. Cosa Nostra qui gestisce l’economia, i posti di lavoro, da loro dipende la vita degli individui. I Lubrano attraverso l’impresa edilizia CO.GE (Costruzioni Generali) di proprietà di Raffaele Lubrano e sua
moglie Rosa Nuvoletta, sono penetrati in tutte le aziende della zona, dove gestiscono centinaia di posti di lavoro. Questo significa avere consenso e disporre anche di voti».

Quando Raffaele Lubrano fu ucciso nel 2002, proprio a Pignataro per motivi ancora sconosciuti, i suoi funerali furono una fiumana di persone, tutte riconoscenti della magnanimità e del potere del boss. Nel posto esatto dove Lubrano è stato ucciso, vi sono fiori freschi ogni mattina. Il consenso al clan è esponenziale. Pignataro Maggiore risulta essere una base militare operativa per gli omicidi decisi da Cosa Nostra sul continente. Nel summit mafioso organizzato dai Nuvoletta a Marano di Napoli, che ha decretato la morte il 23 settembre 1985 del giornalista de Il Mattino Giancarlo Siani, partecipò il boss pignatarese Gaetano Lubrano, dando, secondo un pentito, il suo parere positivo all’assassinio. Altro omicidio eccellente in cui sono stati coinvolti i pignataresi è quello del sindacalista Francesco Imposimato ucciso a Maddaloni l’11 ottobre 1983, fratello del giudice Ferdinando Imposimato. Francesco Imposimato fu ucciso per una vendetta trasversale contro il fratello magistrato che stava indagando a Roma su Cosa Nostra. Per l’omicidio Imposimato sono stati condannati all’ergastolo in via definitiva Pippo Calò, cassiere di Cosa Nostra a Roma e capo della famiglia mafiosa di Porta Nova a Palermo, Antonio Abbate, boss di Pignataro Maggiore; Vincenzo Lubrano, il boss di Pignataro Maggiore è stato condannato all’ergastolo in I grado, assolto in appello e la Cassazione ha annullato la sentenza d’assoluzione e ha disposto un nuovo processo d’appello iniziato lo scorso 24 settembre a Napoli. Quando don Vincenzo Lubrano è stato assolto in appello, nel processo Imposimato, ha organizzato un pellegrinaggio con due pullman a San Giovanni Rotondo per ringraziare Padre Pio, artefice, secondo lui, dell’assoluzione. «I pignataresi», ricorda il giornalista, «hanno partecipato numerosi alla sacra gita anche perché tutto era spesato da don Vincenzo». Il defunto figlio di don Vincenzo Lubrano, Lello, religiosamente fece restaurare a sue spese, nella sala Moscati attigua alla chiesa madre di Pignataro, un affresco raffigurante una Madonna. È detta la «Madonna della camorra», visto che vulgata vuole sia la Madonna a cui tutti i boss passati di qui si sono appellati per poter ricevere in grazia una latitanza serena. Non è difficile immaginarsi Totò Riina, Michele Greco o Bernardo Provenzano chini sugli scranni dinanzi all’affresco della Madonna, implorare penitenti
d’esser illuminati nelle loro azioni e protetti nelle loro fughe.

Quando si passeggia per Pignataro Maggiore si avverte una sensazione
ambigua; da una parte la serenità del piccolo paese, composto da lunghe file di villette, piccoli giardini recintati, poco traffico, giornate trascorse dinanzi alla chiesa o al bar, frutteti sterminati e biondissimi campi, dall’altra parte si notano gli occhi puntati con sospetto sui «forestieri», i gesti attenti di chi ossequia con ostentazione la moglie del boss oppure ci s’imbatte nell’inaspettato cubo di cemento armato dell’azienda chimica costruita su terre di Cosa Nostra. Pignataro è un posto strategico per la gestione della latitanza, visto che si trova in una piana da dove è possibile dominare le strade d’accesso ed in caso di pericolo, fuggire nei casali più sperduti delle campagne o addirittura scappare per il budello di paesini limitrofi, un vero e proprio labirinto. Se poi si aggiunge che sino a qualche anno fa non esisteva neanche un presidio di polizia, il mistero di Pignataro come capitale della latitanza per Cosa Nostra è svelato. Il paesino è circondato da latifondi, da immense proprietà terriere dove si ergono quasi come sentinelle, le ville dei boss.

TORRETTA DI GUARDIA. Le ville che ospitarono (e ospitano?) i corleonesi e quelle che continuano ad ospitare gli uomini del clan Lubrano si trovano in aperta campagna, per raggiungerle bisogna percorrere piccoli sentieri appena asfaltati. Sono più propriamente bunker, recintate da mura di cemento armato, con alti alberi che occultano le facciate, non esistono finestre che danno sull’esterno, hanno vetri oscurati, telecamere ovunque. Pur essendo molto grandi, con campetti di calcio e piscine, all’esterno risultano compatte, raccolte, simili a presidi militari, strutturate a guscio d’uovo.

Con Palmesano, mi avvicino alla villa di Vincenzo Lubrano. Cancelli, telecamere, muri di cemento armato, un edificio centrale che svetta come una torretta di guardia. In questa villa ci sono stati summit di Cosa Nostra, per il sentiero che sto percorrendo è passato il gotha della storia mafiosa.
Luciano Liggio, Michele Greco, Saro Riccobono, Pippo Calò, Totò Riina, Leoluca Bagarella, sono soltanto alcuni dei nomi accertati che sono transitati per questa villa. Mentre procediamo, notiamo un’Alfa 145 rossa che ci segue. Non ci molla un attimo, quasi ci tampona, «è normale»,
rassicura Palmesano,«qui tengono sotto controllo tutto». Le terre che attraversiamo, i fienili, le aziende ortofrutticole, tutto è di proprietà dei Lubrano-Nuvoletta. Qui ci sono delle proprietà appartenute a Luciano Liggio tra cui 100 moggi di terreno confiscati dalla magistratura ad Angelo Nuvoletta. L’abitazione bunker di Raffaele Ligato, nome storico della mafia pignatarese, imputato per l’omicidio Imposimato è stata sequestrata dalla magistratura, ma Ligato ha continuato a viverci in tutta tranquillità sino a pochi giorni fa. Mentre decine di agenti della polizia con difficoltà sgombravano la villa-bunker tra imprecazioni e urla delle donne del clan, Ligato si è rivolto con fare sbalordito al sindaco Giorgio Magliocca (An) lì presente: «Ma come dopo tutti i voti che ti ho fatto avere, mi fai togliere la casa?». Qui né destra né sinistra né centro sembrano aver avuto la forza di combattere le cosche. C’è una sottovalutazione totale del caso Pignataro Maggiore, perché Cosa Nostra e i clan locali hanno organizzato un sistema di potere sotterraneo che non genera fatti di sangue, rapine, scontri. Questa terra è appunto la Svizzera dei clan, tutto scorre in maniera serena, pacifica. Lo stesso padrino don Vincenzo ha dichiarato che a Pignataro la camorra non esiste, ma ci sono solo extracomunitari che rubano motorini.
Procedendo, ci fermiamo nella piazzetta, qui Palmesano è riuscito a ottenere che si piantasse un albero in memoria di Paolo Borsellino affiancato da una targa in marmo con il nome del magistrato. Una mano anonima pensò bene di imbrattare la targa con la scritta e «W la camorra», e poi di fracassare la targa, posta proprio davanti al Comune. La targa oggi è tornata al suo posto. Ma è una guerra continua: «Ho dovuto scontrarmi con devote persone
che volevano sradicare l’albero per far posto a una statua di Padre Pio. Al che ho fatto presente che la piazza di Pignataro era abbastanza ampia da ospitare le due cose assieme».