1.7.07

Gaia


Alle 9.57 arrivava l'intercity. Quando arrivava.
Le carrozze erano quelle centrali. Sempre.
Tra le mani di Eleonora c'era sempre un pensiero. Generalmente molto romantico.
Le mie erano generalmente vuote in attesa di riempirsi di lei.

Il saluto ed il "come stai" assumevano l'aspetto di un superfluo convenevole di "bon ton" che si traduceva metafisicamente in una specie di riappacificazione delle reciproche anime.
Generalmente il bagno era il primo che capitava.

I bagni degli intercity hanno i vetri bianchi traslucidi, sono rumorosi e, di mattina, non fanno troppo schifo. C'è sempre uno specchio di fronte e sono molto larghi. Abbastanza larghi da ospitarci entrambi.
Abbastanza spazio per spogliarsi e fare tutto, lì, in cesso che diventava stanza; nello sbattimento di ferraglie che diventava sinfonia. Nelle mie mani che diventavano avide; nella sua bocca sporca di sperma.
Il supplemento business class lo rubai un giorno dalle mani di una fata finita davanti ai miei piedi per caso.

Eleonora aveva i capelli ricci, riccissimi. Duri, spessi, vorticosi, larghi. Una chioma che contornava un viso largo ma delineato, ricoperto di pellaccia dura e setosa come i petali dei garofani.
La mandibola un pò allungata.
Eleonora aveva gli occhi marroni. Marroni come il legno dele querce, delle sequoie, del mogano. Dei pioppi. E più esplodeva di piacere più erano marroni, più erano grandi.

Le mani di Eleonora erano tozzette e mai che avesse avuto un polso libero. Bracciali di perline infilate a mano, peperoncini rossi che sembravano corni. Al collo sempre un nuovo ciondolo. La bocca sempre la stessa e, credetemi, che bocca. Cazzo.

- Nader! ...Taz.
- Bussa da Roberto.

[...]
- Roberto? ... Taz.
- Taz! Gaia v'aspetta.

[...]

- Gaia?

- Taz ed Eleonora. La moglie mi diceva che lei ricordava una cantante rumena di qualche anno fa, tu invece molto... molto...

arrossisce un po'
-...maschio. Vi ho riconosciuto subito. Ecco. Questa, oggi, è casa vostra.


Il letto non lo ricordo, e di tutti i vestiti di Eleonora ricordo solo una specie di scarpe bianche.
Della stanza non ricordo niente, ma il vento spingeva dentro le tende bianche sopra le finestre spalancate.
La stanza era soffocata di una luce meravigliosa e rossastra, screziata di giallo. I palazzi intorno erano di una delizia disarmante. Di fronte c'erano tegole rimosse e un comignolo dove dei gabbiani avevano deciso di trasferirsi da poco. Credo non pagassero l'affito nell'anarchica libertà che li dominava.

Le parole si dilatavano, i veli espandevano, i corpi esplodevano. E non ricordo cosa successe prima, o cosa successe poi ma c'eano delle gambe.
Ed un culo poggiato su un davanzale che parlava ad un telefono e la sua voce sorrideva.
Si poeva pensare di stare facendo l'amore anche solo ascoltandola.
Si accostò al eltto e deci si di tirarle via i vestiti e legarle le mani al letto. Decisi di tirarle via le mutande e morderle le labbra. Di strappale i capelli mentre il mio corpo spingeva contro il suo e le mie palle sbatteano sull'orifizio del suo fondoschiena.

E non capii mai dov'è che finivano i miei occhi e cominciavano i suoi, o dove le mie mani finivano e cominciavano i soi capelli. Ero io i suoi capelli e le sue mani e lei era i miei desideri.
Il corpo suo era sparso su lnzuola bianche: membra distese a celebrazione del mio piacere, della vita che urlava impazzita nelle bocche dei gabbiani.

Le spinte pelviche erano vento che muoveva le tende; sole che batteva sul mondo; sperma che, come sudore, grondava dovunque.

Le sue urla di piacere ed il suo singhiozzo erano il mugolio delle onde di notte: incastrate come carcasse tra gli anfratti e la battigia.
Le sue mani scavavano la mia carne e i miei denti aprivano sanguinanti feritoie lungo la sua schiena, sulle sue spalle, sulle meravigliose pacche di un culo che il mondo ha raramente apprezzato in milioni di anni.

E i graffi e il rossore e la forza erano espressione di una voglia di morire di un morte di transito verso l'infinito.
Ogni goccia di sangue un urlo. Violenta passione sfogava, emergeva. Come bestia in gabbia, come assetato che martella nel terreno certo dell'acqua che c'è sotto...
Rabdomanti di piacere infinito, eternamente in cerca e mai sazi.
E piacere. Piacere a quintali, a tonnelate, a metri cubi.
Ne bevevano e le facce, i peli, le unghie. Pieni. Saturi.

Bocche costantemente spalancate a mordere l'anime che grugnivano come maiali nel letamaio immenso della nostra passione clandestina.

Ma il tempo, il fottuto tempo ci fregò sotto la doccia.
E poi non ricordo che una corsa con la mano stretta nella sua, ed un altro treno.
E lancette che scandivano una fine.
E non ricordo quanto viaggiai.
Non ricordo quanto le scrissi.
Non ricordo niente.
E il ricordo della fine digrignava i denti a volerla aggredire, la fine.

Ma il tempo aggredisce il ricordo che mi consuma, lasciandomi addosso la vergognosa voglia di dimenticare.