6.5.06

@Station


Stamattina alla stazione sono comparsi altoparlanti grigiochiaro che annunciano treni e ritardi. Lo fanno in continuazione senza lasciare tregua.
Li osservavo mentre soli come allodole se ne stavano appollaiati sopra la scritta bianca recitante: "MUSICOPOLI".
Li fissavo mentre vibravano i timpani dei pendolari e gli occhi del capostazione che attonito vedeva passeggeri abituali. Lui oramai, forse, non ha più un cazzo da dire a nessuno. Presto verrà sostituito da un'impianto automatico sancente l'uffiale rottura dell'ultimo legame di dialogo nelle stazioni del sud: attaccare bottone col capostazione, cacargli il cazzo sulle ferrovie, dirgli qualcosa di cattivo gusto su trenitalia, incolparlo del ritardo, farlo sentire amico di viaggio, complice del cambiamento della strada che comincia, lasciarlo maledire il lavoro e poi stare con lui. Lì, vacui, tra un binario e l'altro a guardare i raggi del sole d'aprile.

Nuove tecnologie elettroniche irrompono nel panorama desolato e deserto dominato da un sottopasso che dà in mezzo ad una campagna, ad una 60ina di metri dalla stazione. Lì una volta -dicono- dovevano arrivare gli scali commerciali. Una volta, quando Musicopoli era in espansione.

Oggi Musicopoli è in un'involuzione socio-sanitaria-culturale ed economica spaventosa e l'unica cosa che rimane a far compagnia alla desolazione mattutina colorata di verde speranza, è un capannone industriale semidistrutto dalle pareti sghembe che tagliano l'erba e i tralicci di cementarmato. Sul tetto ancora qualche lamiera di eternit e qualche gazza ladra. Una beccaccia...

Intorno alla stazione c'è un binario morto e poco più in là una casupola quadrata circondata di un giardino con decine di piantine curate e fiori. Tendine bianche pulitissime, stile "casa primo dopoguerra" teneramente si lasciano solleticare dal vento, svelando con discontinuità un'intimità inalienabile che si dissocia dal tempo e dallo spazio per dare vita ad una dimensione di complicità familiare, di coesione, di reciproco affetto. Di mutua assistenza.

A volte vado prima alla stazione, per assicurarmi che tutto sia uguale.
Ad accertarmi che quel porto dal quale il mio corpo parte per strade improvvisate rimanga, nello sprito, uguale a se stesso.
A verificare che gli occhi del capostazione mi guardano con sospetto d'imminente suicidio.

Passeggio tra i binari, e ritorno.
Rimango in bilico sul rettilineo indefinito ricoperto d'ossido ferroso muovendo un piede davanti l'altro.
In equilibrio sopra i travertini di legno e sopra le pietruzze.
Sotto i cavi a 380volts.
Di fianco alla casetta Egidio innaffia i fiori mentre Franco è sull'uscio in boxer bianchi. Si tocca il pesce e fa un fischio da capraro a Egidio che lascia la pompa per farne una più gradevole.

Faccio per cadere ma resto lì.
Otto centimetri sopra il mondo è tutto più poetico.