13.3.08

tredici marzo


Quella sera rientrai prima a casa. Scappai dal lavoro con l'ansia del criaturo curriato dal pittbbull.
Con la tensione di chi aspetta l'esame dell'accaivvù.
Camminai per ore in bici senza sentire che la natura asportasse tensione addominale al mio corpo.

Quella sera tornai a casa e trovai Alehandro.
Occhi verdi, maglietta a mezze maniche, capelli rasati.
Il suo piccì processava bit che approssimavano suonate di Sebastian Bach.
La casa aveva le finestre spalancate, i pavimenti un odore di pulito. Tutto sembrava sbrilluccicare.

Alehandro fu la primavera che mi piombò in casa quella sera. I suoi germogli di sorriso disseminavano di polline di spensieratezza ogni piastrella della casa sfatta, ogni pezzo di muro.

Da quella sera cenai in una compagnia che aveva spazzato via la nebbia dalle strade, che aveva placato il vento, che aveva scaldato l'aria, che aveva disteso le radure, che aveva evaporato la brina, che aveva asciugato la pioggia, che aveva richiamato i passeri.
Che aveva fracassato il silenzio sotto gli sfrigolii degli uccelli.

Da quella sera la mattina mi svegliai prima per correre in bici con gli abiti da lavoro, per attraversare a piedi le radure immense che dividono gli edifici: questi strani masi della pianura padana. Per sentire il gorgoglìo degli acquitrini, delle rane.

Da quel mattino cominciai a disintossicarmi l'anima, prima d'infangarmi di lavoro.